mercoledì 9 luglio 2014

quarta e ultima parte del racconto emozionante di un trail anzi della laverdo ultra trail #lavaredoultratrail

.....Passo la notte a correre senza riferimenti spazio temporali, il cielo è coperto e purtroppo non regala la magnifica stellata della LUT di qualche anno fa (dove avevo partecipato alla prima parte della staffetta insieme a Claudio_sbarbi), si è solo cullati dalla luce ipnotica della frontale. Ecco, ipnotica forse anche un po’ troppo, visto che nella mezz’ora che intercorre tra le 2:30 e le 3:00 ho una vera e propria crisi di sonno: avevo messo in conto che due notti insonni sarebbero state dure da affrontare, ma mai avrei detto che i primi problemi potessi averli dopo nemmeno quattro ore di gara, eppure eccomi qui, incapace di tenere gli occhi aperti e di scuotermi dal torpore, sto camminando nel dormiveglia, letteralmente dead man walking. Per fortuna sono in un tratto boschivo relativamente tranquillo, dove il massimo pericolo che corro è quello di inciampare in una radice e di finire in un cespuglio spinoso che forse potrebbe essere utile a darmi una sferzata. Poi la crisi nera, così come è arrivata, magicamente sparisce, torno ad essere vigile, presente e pieno di energia: l’alba che tinge di rosa la maestosità delle cime mi fa sentire immensamente grande e profondamente minuscolo al contempo. Al primo check point all’Hotel Cristallo posso finalmente fare il primo punto della situazione: ho un margine di quasi due ore sulle scope e questo mi tranquillizza, posso rilassarmi e continuare con il ritmo “a sensazione” (ancora non me rendevo conto, la corsa era solo all’inizio, ma uno dei doni compresi nel pacchetto All Inclusive Ultratrail consiste anche nella capacità di guardarsi dentro, di ascoltarsi, di parlarsi e di comprendere il proprio fisico e la propria mente. La strada era quella giusta…), godermi il primo ristoro caldo e.. sistemare nello zaino il sacchetto con la maglia a maniche lunghe che per 33 Km ha anestetizzato i miei zebedei: sfilo la zip, arrotolo la giacca a vento, la maglia, infilo, chiudo la zip. Fatto. Tempo impiegato credo 25 secondi netti. Vorrei darmi un’amichevole calcio
in culo, ma mi limito ad un sornione “fanculo Fat!” prima di gettarmi a corpo morto sul thè caldo e l’uvetta passa. Mentre mangio e bevo, faccio salotto con i volontari (non mi stancherò mai di ringraziare abbastanza tutti questi appassionati che per nulla in cambio passano ore ad accudire amorevolmente chi sta inseguendo un sogno, aiutandolo a realizzarlo: GRAZIE RAGAZZI!!) e capto un discorso mezzo sconclusionato del primo ritirato di una lunga serie che incontrerò lungo il percorso: “Ok, basta, io mi fermo qui…dov’è il pulmino dei ritirati?” “Caspita, è successo qualcosa? Tutto bene?”cerco di capire un po’ allarmato. “No, nulla. E’ che di solito dopo qualche ora sono stanco. E se sono stanco non mi va più di correre…”. Mumble, mumble: amico, qualcosa mi dice che hai cannato completamente tipo di gara! Il mondo è bello perché è vario… Correre di notte è affascinante, ma la luce del giorno regala nuova energia: ci si sente un po’ dei sopravvissuti ed i raggi del sole che fanno capolino dalle nubi rinfrancano e fanno dimenticare le fatiche notturne. Passato il lago di Misurina, il prossimo passo è il rifugio Auronzo, corrispondente al 48° Km, posizionato al termine di una bella rampa di salita che stronca le gambe di molte persone: a complicare le cose è anche il fatto che il rifugio si vede a km di distanza, tu cammini, sali, superi un dosso e quando pensi di essere arrivato…il rifugio è ancora là, distante anni luce, sembra che qualcuno lo sposti mentre a testa china tu non te ne accorgi. In questa estenuante lotta di resistenza alla fine il rifugio Auronzo capisce che non ho alcuna intenzione di cedere, si ferma e finalmente si fa raggiungere. Ad accogliermi la prima di una lunga serie di pastine in brodo, capace di toccare le mie più profonde corde emotive: qualcosa di caldo che senti penetrare nel profondo delle tue ossa infreddolite, straordinario nel rigenerarti e farti tornare in vita! Se non puzzassi come un caprone tibetano imputridito mi getterei a baciare la cuoca: mi limito ad un sentito "Grazie!" detto con gli occhi lucidi. Ho mantenuto lo stesso margine di distacco dalle scope ed euforico ne approfitto per telefonare a casa, augurare il buongiorno alla Venerabile Consorte e al Principe Ereditario, comunicare loro che il vecchio daddy è vivo, vegeto e determinato ad andare oltre. Fa una certa sensazione sentire le loro voci sonnacchiose, di chi appena alzato ed ancora in pigiama si sta preparando la prima colazione. L’organizzazione ha predisposto un servizio di consegna borse per un eventuale cambio, ma io proseguo con quello che ho indosso: canottiera tecnica, maglia a maniche corte e soprattutto i mitici manicotti, che tiro su o giù in funzione della presenza o meno di vento gelido o pioggia, risparmiandomi tutte le soste che fanno tutti coloro che al primo accenno di freddo recuperano la giacca a vento, anche fosse per pochi metri. Troppo sbattimento. Personalmente "ho già dato"! Ed ora via, verso Forcella Lavaredo che segnerà uno dei punti più alti della gara e che precede una lunga discesa sino a Landro e a Cimabianche: in questo tratto, complice forse anche il paesaggio a mio parere meno esaltante, incappo nella seconda ed ultima crisi di sonno, identico al primo, durata mezz’ora netta di black out mentale in cui pagherei oro per una tazzina di caffè. Cerco di caricarmi mentalmente considerando che, varcato il 67° Km, inizierò a compiere distanze mai raggiunte prima, come se ogni km segnasse un piccolo, nuovo Personal Best, ma presto mi rendo conto che questa è psicologicamente un’arma a doppio taglio, aver già fatto molto induce la vocina interiore a blandirmi con lusinghe del tipo “Bravissimo Fat! Hai già ottenuto un ottimo risultato. Non sarebbe meglio finire qui?” ma il tono è poco convinto, è uno sterile tentativo che non attacca. Sto scoprendo in me una forza interiore che non conoscevo, ho la sensazione che una metamorfosi stia avvenendo ed il ritiro non è contemplato, ci sarà forse un giorno in cui mollare, ma di certo non è oggi. L’altimetria riportata sul pettorale di gara è utilissima, offre un costante riferimento, ma spesso inganna: quella che all’apparenza sembra un’innocua collinetta da superare fischiettando è in realtà l’ennesima forcella spaccagambe (nella fattispecie Forcella Lerosa), punto finale di uno dei tratti più impegnativi della gara segnata da passaggi esposti su nevai, guadi in torrenti con l’acqua alle ginocchia e giusto per non farsi mancare nulla, anche un bello scroscio di pioggia intenso, fosse mai che qualcuno si possa lamentare del caldo! L'elicottero del soccorso medico sorvola le nostre teste: ecco un altro che non termina l'impresa...
Raggiunta la forcella sono fradicio e intirizzito e ad un ristoro spartano mi viene proposta CocaCola fredda: potrebbe essere fatale, ringrazio e proseguo imperterrito con l’unica intenzione di togliermi quanto prima possibile da queste folate che mi ricordano la “Galleria del Vento” degli stabilimenti automobilistici di Mirafiori.
Al rifugio Col Gallina, dopo essermi riconciliato con il mondo a colpi di pastina in brodo, riaccendo temporaneamente il cellulare per fare qualche telefonata (so che molti amici hanno provato a telefonarmi in gara, ma alla fine ho preferito tenere spento il cellulare per accenderlo all’occorrenza): auguro la buonanotte a casa (“Vero che torni presto, papotti?”), provo a chiamare Podistica (cellulare spento), provo con Alvin (cellulare spento) e quindi con Alberto.
Mi risponde subito e mi congratulo con lui per la gara con un “Sei già docciato e sul divano, vero?” mentre a me mancheranno ancora almeno sette o otto ore di fatica: in effetti la doccia l’ha fatta la mattina, in quanto purtroppo ha subito una distorsione alla caviglia mentre stava conducendo una gara trionfale. Mi spiace davvero tantissimo e, anche se so che è stupido, mi sento in colpa perché io sto proseguendo quando altri che meriterebbero di vivere quest’esperienza si sono dovuti fermare (scoprirò poi che anche Andrea ha avuto lo stesso infortunio, terminando la LUT con largo anticipo..). Alberto invece è carico come una molla, sento la sua vicinanza e partecipazione alla mia corsa, me lo immagino saltare sul divano con la caviglia gonfia, trattenuto a stento dall’infortunio, così come (credetemi, non è falsa retorica) ho “sentito” l’incoraggiamento di tutti gli amici che virtualmente hanno spinto ogni singolo passo sulle pietraie dolomitiche: mi accorgerò domenica pomeriggio di aver ricevuto centinaia di messaggi, ma è come se li avessi letti in tempo reale, io li ho “percepiti”!
Si parte in direzione dell’Averau, per l’ennesima impegnativa salita, ma ormai non mi pesa più, sono in uno stato di flusso; la montagna non la combatti, non la sconfiggi, non la conquisti. E’ immensa, è al di là della nostra pochezza, ti puoi solo avvicinare ad essa con umiltà e rispetto ed allora il gigante ti farà salire sulle sue spalle e ti sentirai un gigante anche te, ma solo per luce riflessa, farsi piccoli per essere grandi, comprendendo che l’unico modo per ritrovare se stessi è accettare il fatto che prima bisogna perdersi, lasciare tutto alle spalle, spogliarsi di ogni cosa e fondersi con la fatica, la stanchezza, il dolore.
O forse sto solo sparlando ed invece di essere spiritualmente illuminato sono solo marcio di stanchezza, non so.
Il passo Giau segna anche l’ultimo cancello, il definitivo lasciapassare verso la gloria eterna dei finisher: passato questo con due ore abbondanti di margine sul tempo limite, la responsabilità di finire la LUT è solo nelle mie gambe. Anzi, nella mia testa, perché ormai le gambe le ho perse da un pezzo, dimenticate da qualche parte chissà dove: è strano, però, sono indubbiamente stanco, ma tutto sommato mi sento bene, sono in pace con me stesso ed anche il mio corpo ha rinunciato ad opporsi, come se il rendersi conto che da ore non ascolto i segnali di stanchezza lo avesse fatto desistere dal continuare a inviarmeli. Anche il dolore è talmente generalizzato (non c’è un solo muscolo che non mi faccia male) che diviene quasi impercettibile: non ho “solo” male ai piedi, o “solo” male alla schiena, o “solo” male alle ginocchia…è un’unica sensazione di dolore che diventa avvolgente, ovattata, per qualche assurda ragione la sento come “protettiva”.
E comunque anche all’ultimo controllo il numero di ritirati è impressionante: hai voglia a dire“Coraggio, mancano solo 16 Km…” perché tutti sappiamo che questi finali saranno chilometri eterni, che gli ultimi due strappi in salita saranno due erte inarrivabili e che infine la discesa la sentiremo passo dopo passo nelle ginocchia; inoltre è già ora di riaccendere le frontali e camminare su nevai e pietraie in semi oscurità non è facile, quindi comprendo e capisco chi, arrivato alla soglia del traguardo, abbandona l’impresa e si arrende.
A me per fermarmi dovrebbero sparare su un piede e forse nemmeno questo basterebbe.
Forcella Giau la raggiungiamo con qualche difficoltà tecnica: c’è vento e le nuvole basse, unite al nostro fiato che condensa, ci avvolge in specie di nebbia perenne, contro il cui muro si riflette la luce della frontale (tradotto in modo meno poetico, “non si vede un cazzo”), si procede in lenta comitiva, ognuno di noi affidando i propri passi a chi ci precede, confidando che il primo della lista sappia dove stia andando.
Sono in un gruppo eterogeneo di trailer e riesco nell’impresa di chiacchierare in salita con due ragazzi russi che non spiccicano una parola di italiano: la conversazione prosegue fitta per una ventina di minuti, nessuno credo abbia compreso una sola parola dell’altro, ma alla fine rimane la sensazione di aver condiviso qualcosa e che in certe situazioni le parole alla fine contino gran poco.
All’ultimo ristoro siamo ormai a bassa quota, mancherebbero gli ultimi 9 km ed una mente ingenua come la mia si lascia andare alla considerazione che “ormai è fatta”.
Bravo mona. Sbagliato!
Ignoravo che da quel punto iniziava la parte più sadica della gara: quando ormai non ne puoi più, quando hai nella testa solo l’immagine di una doccia calda, di vestiti asciutti, del sedile reclinato della tua auto nel parcheggio dove allungare le gambe e chiudere gli occhi…ecco che inizia il Bosco Eterno, ribattezzato dal sottoscritto Boscodemmerda.
Vedi le luci di Cortina, sono lì, e nonostante si cammini tra radici esposte e quantità impressionanti di fango procedendo con disarmante cautela, Boscodemmerda non finisce mai: fai 500 metri da destra a sinistra, scendi un po’ di dislivello, scivoli nel fango, rigiri da sinistra a destra, inciampi, tiri qualche moccolo lagnoso, risali un po’..e sei sempre lì! Esattamente dov’eri venti minuti prima. Maledetto Boscodemmerda. Anch’esso alla fine però, in questa estenuante prova di resistenza, si arrende al più coriaceo dei due e finalmente finisce, regalandomi l’ultimo chilometro su strada asfaltata che mi fa entrare in una Cortina addormentata: sono le 2:45’, in poco meno di 28 ore sto concludendo la mia prima LUT, 119 Km per un dislivello positivo di 5.850m, ma le emozioni che ho raccolto lungo il percorso sono talmente personali che sono pure contento che il mio arrivo avvenga in silenzio, perché avendo camminato passo dopo passo per tanto tempo con me stesso è giusto che in compagnia di me stesso questo viaggio abbia termine.

Spesso si dice che l’uomo che giunge al traguardo di una gara impegnativa non è mai uguale all’uomo che è partito: in me è avvenuta una vera e propria metamorfosi, lenta, faticosa ma straordinaria e bellissima; il patrimonio di esperienza che mi porto dentro sarà un tesoro prezioso per i giorni futuri, non solo per me stesso, ma anche per chi mi sta accanto.
Ho pensato spesso a quale insegnamento potrei trarre dalla LUT per trasmetterlo a mio figlio, che alla vigilia della gara ha sofferto il distacco temporaneo chiedendomi “Perché lo fai?”, non pago della risposta che io stesso stentavo a dargli, non conoscendola. E mio figlio non è l’unica persona a cui vorrei trasmettere qualcosa, perché ho qualcuno a cui vorrei poter dire "Combatti la tua più grande battaglia, non arrenderti perché NON È FINITA FINCHÈ TU NON DECIDI CHE È FINITA."
Se si potesse trasferire ad altre persone con un tocco della mano la possibilità di camminare e sorridere, giuro che correrei una LUT alla settimana: purtroppo non è fattibile e il bruciante desiderio che altri continuino a lottare le proprie battaglie della vita resta spesso lettera morta.
Come dicevo ad un amico, ci resta solo l'esempio personale, il migliore e forse unico maestro: se vuoi, puoi tutto. E per essere davvero grandi dentro bisogna accettare di farsi piccoli, perché questa è la vera "grandezza". 


qui trovate la LA PRIMA PARTE
E qui la TERZA




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Mi sposto, ci riprovo

Nell'era dei social, quando un blog sembra davvero giurassico, io provo ogni tanto a scrivere qui